martedì 16 dicembre 2008

We do it Jacks

Come ogni sera ti fai le tue due vasche a delfino nel solito brodo di adrenalina, testosterone, depressione, scatti di delirio d’onnipotenza, metal, speranza e conati di vomito. Fai a botte con te stesso e ti ammazzi. Bestemmi, piagnucoli, mandi tutti aff*****o. Deragli, torni sulle rotaie e riparti pian pianino, che cos’altro vuoi fare, con l’ira negli occhi. E non serve a niente. La vita è come una cyclette, pedali pedali e sei sempre lì. Ma domani li farò pentire di essere nati. Capiranno, finalmente. Domani avrò quattro assi in mano.
Alle sei e mezzo suona la sveglia, alzi le carte, attorno al tavolo ci sono loschi ceffi, sei costantemente sotto di circa un palo e mezzo. Un biglietto del tram, uno scontrino di “cose così”, una figurina di Quagliarella e i soliti due fo***ti jack. La tua matematica, adesso, non ti parlerà di dio; può solo dirti che anche stamattina ci sono sedicimiladuecentoquindici giocate possibili tenendo i jack, e che solo un pugno di esse, che non richiedono abilità e abnegazione, ma solo un c**o sfacciato, ti consentirebbero di portare a casa il malloppo, tutto quanto, tutto tuo, incontestabilmente, incondizionatamente. Ci hai provato tante mattine, ed ogni volta ti sei trovato sotto di qualche bigliettone in più. Ogni mattina la vita ti da due jack, non di più. E alla seconda le carte le da ancora lei. Te ne pentirai, sia che giochi, illuso, sia che butti le carte all’aria, coniglio. E lo strozzino che c’è dentro di te ti asfissia, ti minaccia, ti angoscia, ti mette a disagio con tutti, vuole la sua grana, subito, con gli interessi. Perché se la merita. È uno strozzino: non serve spiegargli che non è colpa tua. Cominci a chiederti se non sia il caso di diventare un bravo lavoratore e guadagnarti quel poco che è sufficiente per vivere senza fare il co*****e. Ma lo sai, lo sai benissimo che quando ci si alza da questo lurido tavolo verde e si va via da questa bettola, non si gioca mai più, l’emozione brucia in un rogo di nevischio sporco e noia. Alle sei e trentadue chiedi carte.
Finisca come vuole lei, non è questo il punto. Il punto è che questo panno verde è liso dai lisci e dalle puntate di miliardi di infami giocatori d’azzardo, tutti uguali e tutti diversi, è un panno stanco, che ha visto lotte sfiancanti contro tutti e tutto, contro la sfiga, contro la paura, ha visto la vita; e la vita consuma. Il bello di questi normali giocatori è che conoscono le probabilità perché hanno stretto loro la mano più d’una volta, ma quando si parla di scala reale non si curano mai del 649.740 a denominatore, ma solo dell’uno che ci sta sopra, di quella dannata cosa dannatamente impossibile che si chiama vincere a questo tavolo, una cosa fatta di leggende, sentiti dire e giornate azzurre dimenticate. Chi ha capito qualcosa di questa bettola invece non se ne cura neanche più, è diventato patologico, gode del semplice rischio. E aleggiare in un tale deprecabile nirvana, purtroppo, è il sogno di tanti.
Ogni tanto dagli angoli più bui si sente qualcuno parlare ancora di speranza, qua dentro; è una leggenda. E la leggenda vuole che un tizio una mattina, dopo un’infinità di giocate infruttuose, buttò all’aria le solite carte del c***o, jack compresi. Il mazziere lo intese come un “cambio cinque carte”, e gliene diede altre cinque. Asso, due, tre, quattro, cinque, tutti denari. Non si sa se sia vero, ma aiuta a tirare avanti.